Conigli di qua e conigli di là. Si fa presto a dire «coniglio all’ischitana», piatto totemico, ricetta identitaria. Alla prova – in trattoria o ristorante - le delusioni superano ampiamente le soddisfazioni. Troppo abusata la sicumera di cuochi e cuoche che s’illudono di cucinarlo «secondo tradizione». Mi spiego meglio: ognuno è libero di mettere in tavola la propria personalissima «ricetta tradizionale». Ma il nodo cruciale è, non solo riservato alla materia prima, troppo spesso sottovalutata nell’orgia veloce delle preparazioni per le frotte turistiche; ma, ovviamente, alle modalità di cottura.
Ma qual è il canone da (preferibile) manuale? Il coniglio, di pezzatura non troppo grande, deve essere tagliato in dieci pezzi, poi deve essere rosolato nella padella (sartana), con grandissima cura, girato e rigirato. Non deve bruciacchiare, slabbrare, né prosciugare i propri umori, ovviamente. Si sposta nel tegame di terracotta dove cuoce, per mezz’ora, con una testa d’aglio intera e con calore e umidità uniformi, insieme a un bicchiere vino bianco (per sfumare); quindi pochi pomodorini e un po’ di concentrato. Le interiora, gli ‘mbrugliatelli avvolti nel prezzemolo, e il fegato si aggiungono a fine rosolatura. Il sugo, che sarà cremoso, condirà i bucatini. Vi concedo soltanto una variazione, per la pasta: gli zitoni lisci, o candele, spezzati. Possiamo anche aggiungere una spolverata di Parmigiano Reggiano ben stagionato, non il Pecorino. Peperoncino? No.
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